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Era la 62° Berlinale con un mazzo di fiori in faccia al Giappone (14.02.2013)


La locandina del film 




Coerente al proprio schema la Berlinale anche in questa edizione non rinuncia nel concorso al film indipendente di autocritica statunitense, che getta un occhio con amara ironia e sulla famiglia americana e il suo mito. La famiglia che vuole tanto esserlo, ma perfetta non lo sarà mai. In sequela ricordiamo i più bei film sul tema passati dalla Berlinale in questi ultimi anni: „Fireflies In The Garden“ (2008), „The Private Lives Of Pippa Lee“ (2009) e „My One and Only“ (2010). Quest‘anno tocca a „Jayne Mansfield`s Car“ di Billy Bob Thornton, regista e attore nel suo film, che recita il ruolo di un veterano della seconda guerra mondiale, rispedito a casa per aver riportato gravi ferite nel conflitto. Qui da dove lui viene - Alabama - tutti vogliono una guerra a parte suo fratello (Kevin Bacon) anche lui ex combattente ora un gruppo di Hippie comunisti che entra e esce di prigione: è il 1969. Che onta per il padre (Robert Duvall) anche lui veterano del primo conflitto mondiale e repubblicano nel sangue. Alle dolenti note se ne aggiungono altre: la moglie che lo aveva lasciato per andare con un altro a Londra è morta di cancro e l‘intera famiglia dell‘altro vedovo (con figlio e figlia) porta la salma in Alabama al luogo di nascita per le esequie. Tra scontri e incontri venati di sarcasmo antibritannico e anti yankees i rapporti si dipaneranno, nuovi amori sbocceranno, mentre i nipoti - la nuova generazione - di fronte alle solite noiose e accalorate discussioni, che non scemano (anzi!) con l‘arrivo di ospiti inglesi, piuttosto prendono la via per il Vietnam. Questo film, bisogna ammetterlo, è un piccolo capolavoro perché non omette di evidenziare - facendo ridere - quali sono gli sforzi che una famiglia deve costantemente affrontare pur di rimanere unita, pur di credere ancora al suo stesso sogno mentre tutti ossessionati si trasformano in schegge impazzite e in espulsione. La seconda opera di rilievo, fuori concorso, è il film di un maestro del cinema cinese Zhang Yimou dal titolo „The Flowers Of War“ tratto da una storia vera e struggente. E‘ il 1937 quando le truppe giapponesi irrompono nella capitale Nanging mettendo a ferro e fuoco la città e usccidendo senza pietà migliai di civili. Qui un unico posto è il più sicuro: la cattedrale cattolica con un refettorio e una scuola per le ragazzine delle famiglie in vista della città. Il prete è morto, così ne giunge un altro - suo malgrado - un vagabondo ubriacone americano (Christian Bale) che per tenere a bada la furia dei soldati giapponesi in cetta di belle ragazzine per spassarsela escogita di indossare la tunica da sacerdote, sperando in quel ruolo di intoccabile ministro di un culto di trovare una via di fuga. A irrompere nel refettorio - per la gioia del nuovo parroco - sarà anche un gruppo di prostitute, in pericolo tra i militari e soprattutto terrbilmente affamate, che si nasconde in una stanza segreta sotto il tavolo della cucina. Il comando giapponese dopo un breve periodo di finta tolleranza, dà un ultimatum al sacerdote: il coro delle educande si dovrà presentare per cantare davanti agli alti ufficiali dell‘esercito che ha conquistato Nangin. E‘ chiaro a tutti cosa attende le ragazzine, salvate in estremis dalle prostitute che si sostituiranno alle piccole indifese. L‘estetica del film è al massimo grado e mano a mano che il tono diventa più tragico, il colore prende il sopravvento: al grigio delle rovine si sovrappongono le tonalità calde e pregne dei rossi e delle lacche cinesi. O il rosone della cattedrale, un immenso arcobaleno attraverso cui trapela la luce triste di Nangin rasa al suolo. Zahng Yimou ha dichiarato: „Non ho fatto un film contro il Giappone, ma sul valore dell‘amiczia e delle donne in momenti terribili“. Ma difficilmente il Giappone manderà giù il boccone amaro, perché il film rivanga - senza alcun filtro - una pagina della storia che non fa certo onore ai giapponesi, ovvero quello che è passato con il nome di „Stupro di Nangin“, nel quale morirono migliai e migliaia di civili sotto la furia arbitraria dell‘esercito imperiale giapponese sguinzagliato a piede libero tra le strade di quella che fu una grande capitale. Le dimensioni del massacro sono ancora oggetto di discussione tra Cina e Giappone e a giudicare dai fischi di alcuni giornalisti giapponesi in sala, ieri dopo la proiezione del film, la Berlinale del politicamente corretto ha riaperto una brutta ferita.

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