Foto: Saida Barmaki e Mohsin Ahmady |
Torniamo al sorprendente concorso di questa sessantaquattresima edizione
della Berlinale, uno stupore causato dalla triste qualità dei film scelti, pur
appartenendo a registi di tutto riguardo. Come l’austriaca Feo Aladag, che ha
presentato Inbetween Worlds perfettamente
in linea con quanto testé annunciato: brava lei, molto apprezzata tra Germania
e Austria, ma il film sembra tralasciare una serie di interessanti occasioni,
probabilmente per superficialità o forse per troppa concentrazione su un
soggetto, che s’ispessisce a un certo punto nei meandri soggettivo-psicologici
del suo personaggio principale, in una guerra che invece è stata corale. Un
ufficiale dell’esercito tedesco (Ronald Zehrfeld) si trova in Afgahnistan (Kunduz)
dopo la morte del fratello durante una missione contro terroristi talebani
nella stessa area. Si è fatto mandare proprio in quel reparto, per dare un
senso alla sua divisa: continuare quello che il fratello non può più fare;
ergo, difendere la popolazione locale dalle angherie fondamentaliste. Gli è
affibbiato come traduttore, per una missione (presumiamo) molto delicata tra i
villaggi più a rischio al fronte, il giovanissimo Tarik (Mohsin Ahmady) che fa
il docente di inglese, quando non deve tradurre a rischio della propria vita.
Lui studia anche il tedesco, proprio per essere sempre più utile, forse anche
per un sogno nel cassetto, ma ha il problema di una sorella mal tollerata in
città perché, donna, studia all’università (Saida Barmaki). Entrambi poi sono minacciati
a causa di questo suo lavoro a servizio di un esercito visto come occupante,
arrogante nel dettar legge, dove certamente sarebbe utile averne una, ma non di
marca occidentale. Tra il comandante e il giovane traduttore nasce simpatia pur
nell’evidente differenza culturale e reciproca diffidenza. Sul piano personale
il film sonda i caratteri in modo certosino ma è il contesto a essere lasciato
a se stesso. Un peccato; è quello che più ci interesserebbe. Come mai i
tedeschi sono proprio lì? E la brigata di giovani soldati protagonista della
storia, che cosa pensa di questa guerra impossibile a armi impari e a nostro
svantaggio per l’imperscrutabilità geografica? La politica del film non è
quella di farci capire, ma raccontare la solita vicenda strappalacrime e
romanzata di guerra intorno a un eroe tra ordini evasi, paura della morte e
vincoli etici - o presunti tali - disancorati sociologicamente da tutti noi
spettatori, in luoghi e culture affascinanti e ormai vicini. Non vale nemmeno l’appiglio
logico dell’essere troppo vicini a quegli eventi, per averne una giusta
distanza d’analisi. Comunque non ha proprio senso raccontare la missione antitalebana
con gli ingredienti - un tempo avvincenti - triti e ritriti, da film di
guerra hollywoodiano.
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