Foto: Samuele Pucillo |
Signor Rosi, come può essere la morte oltraggio?
Ho girato per un anno a Lampedusa
e mi creda tutti i corpi che ho visto galleggiare o stivati nelle sentine dei
barconi, sono oltraggiati dalla nostra incertezza.
È una critica alla politica europea?
Il mio film non vuole essere né
politico, né polemico. È la pura documentazione di quel che accade e di quel
che non si sta facendo.
Perché secondo lei?
Per paura di non fare la scelta
obbligata.
Ovvero?
Accogliere senza indugio, cercando
frattanto di risolvere il problema all’origine.
Dieter Kosslick, direttore del Festival, dichiara che Italia e Germania
sono i due paesi finora più generosi. È vero?
Più che altro mi concentro su
quelli che erigono muri e recinti di filo spinato. E questo mi fa rabbia.
Darebbe il Nobel a Lampedusa?
Subito.
Che cosa l’ha colpita dei lampedusani?
La loro pacata e silenziosa
partecipazione. Sono vitali e tutt’uno con la morte che sta infestando le acque
della loro isola.
Ha visto tanti morti?
Li ho pure filmati.
Che cosa l’ha impressionata di più?
I cadaveri delle madri che hanno
partorito nelle sentine dei barconi con i cordoni ombelicali attaccati ancora
ai loro piccoli, morti anch’essi.
Lei ha definito più volte questa sciagura come l’Olocausto dei nostri
tempi…
Ma con una differenza, l’Olocausto
ebraico c’è stato raccontato dopo essere avvenuto. Questo invece è tutti i
giorni sotto i nostri occhi.
Avrà mai fine?
Non ne ho purtroppo l’impressione.
Il film è recente, ho finito di girarlo a inizio gennaio. Credo che la
situazione sia destinata a peggiorare.
Il suo rapporto con il piccolo Samuele come l’ha costruito?
Ci siamo incontrati tutti i giorni
e abbiamo parlato fino a conoscerci bene.
Ha scritto una sceneggiatura?
Non riesco a farlo, inizio le
riprese e mi lascio trasportare dagli eventi, così come i rifugiati si lasciano
ai flutti.
Ci spieghi meglio, per piacere.
Chi scappa si consegna all’ignoto,
al mare e spesso si salva, per fortuna. Come faccio con la regia: a volte
riprendo per ore inutilmente, mentre altre riesco a estrapolare una porzione
straordinaria di film.
In Fuocoammare manca la luce del sole è una metafora?
Io sono fotosensibile, quasi
fobico devo ammettere, e ciò si riflette anche nella scelta e nel trattamento
del soggetto.
Come mai la scelta di questo titolo?
Fuocoammare è una vecchia canzone lampedusana, cantata in memoria di
un peschereccio di isolani affondato dall’aviazione britannica durante la
seconda Guerra mondiale.
Considera questa come una guerra?
Sì, su due fronti: quello esterno
e quello interno. Il primo è tra le nazioni e il secondo più importante, tra le
coscienze.
Come ricorderemo tutto questo tra settant’anni?
Come ricordiamo oggi Auschwitz:
vergognandoci.
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