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The Conjuring 2 - del Male siamo fine e sua fine

Foto: Warner
Il male esercita un suo fascino, attraendo, perché spaventa, ma può diventare puro esercizio intellettuale nelle mani di registi in grado di tracciarne - oltre un business - alcune peculiarità umanistiche. È il caso dell’ultimo film dell’australiano James Wan (Saw; Insidious; Conjuring;) The Conjuring 2 (2016). Il film ripropone il celebre caso di esorcismo (noto come Enfield Poltergeist)  di Ed (Patrick Wilson) e Lorraine Warren (Vera Farmiga) nel 1977 a Londra per aiutare una madre sola un con quattro figli di cui una posseduta. Presenze demoniache e spiriti sono i protagonisti indiscussi del cinema dedicato all’horror, anche ispirato, a così dette storie vere: perché più sono “vere” e più ci coinvolgono/terrorizzano tra la cronaca e il suo pur possibile ripetersi anche ora. Se ti specializzi nell’horror, come regista, significa che è in corso una ricerca su temi che esulano dal genere e dal suo fedele pubblico da compiacere, per usarli a altri fini. Spetta a quel pubblico capirlo con pazienza e “fegato”, ponendosi - film dopo film - su quel tracciato firmato, cercando di usare quel terrore, per alcune spiegazioni non proprio semplici. Il male è necessario? Ci fa regredire o ci accompagna verso nuovi orizzonti di comprensione? 
Foto: Vera Farmliga in una scena del film 
Già Michail Bulgakov nel suo celebre romanzo Il Maestro e Margherita (1966) ci ha poetizzato, con la narrazione di un male forse ineluttabile, forse utile al bene stesso per il suo trionfo sulle tenebre. Era appunto il racconto di un male consapevole di sé e - suo malgrado - nelle mani di un Dio impegnato nel guidarlo verso destini che sono prescelti e mentre ci siamo anche per mettere un po’ di ordine empirico e immanente nel mondo umano. Goethe stesso chiede con Faust a Mefistofele: "Chi sei tu dunque?" - che gli risponde: "Una parte vivente di quella forza che perpetuamente pensa il male e fa il bene." Diciamo una diversa giustizia, che sorge dalle ceneri di un caos non del tutto casuale, imbastito da Lucifero. Il bene è universale e si può per questo concretare in una porzione di finito (l’uomo) per la guerra eterna contro il male. Che invece non è universale, non può esserlo, se tutto è in Dio. Così per il male, quel campo di battaglia, l’uomo di carne e ossa, con il suo dolore sensibile e con le sue paure e debolezze, è l’unico spazio concreto nel quale può sperare di confrontarsi con il suo acerrimo nemico (l’amore di Dio). È su quel solo campo e suo unico limite d’azione, che il male può dare il meglio di sé, sapendo amaramente di non poter trascendere, perché l’uomo per lui è sola “uscita” non “entrata” per giungere a Dio di cui siamo appunto uno sbocco. E è un richiamo eterno alla lotta verso Dio da parte del male, perché sa che cacciando umani può ricevere attenzione dal suo fine per contrastarlo. Spetta a noi sapere ciò e quindi pur nella sofferenza, schierarci con fede o lasciarci invadere. Il non cedere è caro a Dio, il cedere è tormento per il bene che ci vede dilaniati, ma speranza di riottenerci in quella lotta nel dubbio cui è data una sola e unica arma: l’amore assoluto. Amore che il male obnubila con la sua presenza concreta, in confronto all'apparente assenza empirica di Dio in quella possessione. La menzogna dell’essere soli perché Dio è talmente universale da non vederci, incurante, mentre quel male ci tiene in balia. Quando già basta appena un piccolo gingillo benedetto (il crocifisso) nelle mani di chi ha fede cieca, per far tremare e contorcere nel dolore, causato dal bene universale, quel male tanto reale e per questo fatto solo di finito. L'universo può entrare così nello spazio angusto del male di cui siamo stati prima fine e poi sua fine.  


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