Passa ai contenuti principali

68. Berlinale - Un Bilancio alla fine dell'era Kosslick (da RS - Ricerche Storiche)

È sempre emozionale l’esperienza della Berlinale (15 - 25 febbraio 2018 scorsi) che del cinema sonda l’inatteso, lo sperimentale per lasciare il gossip a Venezia e a Cannes. Per questo ha vinto la 68° edizione del Festival di Berlino (15 - 25 Febbraio 2018) la rumena Adina Pintilie con Touch Me Not  che è un viaggio tra emozioni, appunto, ma in formato ambulatoriale con interviste e confronti tra persone che non sopportano il contatto fisico e dunque restano incapaci di rapporti amorosi. Le ambientazioni sono bianche, asettiche, nude come i corpi di quest’odissea umana in terapia per trovare una via e imparare a sopportare e a godere nel contatto fisico.

Non sappiamo se il film troverà distribuzione in Italia, tuttavia resta un cinema di nicchia, che nemmeno l’Orso d’Oro potrà rendere adatto a più ampie platee o più digeribile a chi ama il cinema d’intrattenimento. In più Touch Me Not  non porta con sé grandi novità da vincitore di questo concorso, perché il film che trionfò alla scorsa Berlinale, l’ungherese On Body and Soul, aveva come protagonista un caso identico e in cura di rigetto al contatto. 

Foto: "Figlia Mia" di Laura Bispuri
 L’Italia era in concorso con Figlia Mia di Laura Bispuri e un cast - diremmo - di tutta eccezione, Alba Rohrwacher e Valeria Golino. Affiancate dal vero mostro di bravura nel film, la piccola Sara Casu alla sua prima apparizione, e già in grado di reggere tutta sola questa pellicola. Perché ahimè la Rohrwacher e la Golino ci provano, in due ruoli tanto distanti ma accomunate da un pallore scenico, che se il film non avesse avuto come comprimaria questa bambina capace di mediare (e rimediare) sarebbe stato uno sfacelo. La Rohrwacher nel ruolo di madre naturale ma degenere è ancora troppo acerba, tanto da rasentare a tratti l’eccesso di tecnica a discapito di una naturalezza, raramente raggiunta in scene scritte per una primatista. Mentre la Golino è e resta stucchevole nella ricerca di un ruolo come madre adottiva disperata che a tratti è riuscita a banalizzare in scene altrettanto scritte per una primatista. A proposito della piccola Sara, ha dichiarato la Bispuri: «Ho cercato la bambina per circa otto mesi in varie zone della Sardegna e anche a Roma. Poi è arrivata Sara. Le cose che mi hanno da subito colpito di lei sono state: la sua voce, il suo aspetto così speciale e la somiglianza con Alba. 

Sara è una bambina davvero speciale che a tratti porta il film nell’ambito di una favola, ma sa anche avere una presenza reale e ruvida come piace a me e quindi mescola ancora una volta le carte. Sono davvero molto colpita da lei, dalla sua crescita durante il film, dalla sua concentrazione e dall’amore che mette in quello che fa». Quando quest’articolo raggiungerà i lettori di RS, il film avrà già raggiunto le sale italiane (dal 22 febbraio). È un’opera che resta un tentativo semi riuscito, che comunque ci fidelizza alla giovane regista, perché conferma d’altro canto la capacità della Bispuri di trattare sceneggiature interessanti e di saper trovare talenti e giovani promesse; peccando stavolta in una ricaduta infelice con la Rohrwacher (già protagonista in una più felice opera della Bispuri, Vergine Giurata) a nostro avviso non ancora pronta per ruoli come in Figlia Mia. Trattasi con questa Berlinale di un semifinale e ultimo assolo per Dieter Kosslick, dopo diciotto anni di direzione del Festival di Berlino. A metà giugno, infatti, una commissione designerà il suo successore (rumors la vogliono donna), che da “apprendista” in transizione lo affiancherà nella Berlinale del 2019, per succedergli del tutto dal 2020 in poi. Un capolinea più in generale per la stessa socialdemocrazia anche in Germania - ormai al 18 % nei sondaggi - di cui Kosslick stesso è stato emanazione.  La tradizionale conferenza stampa con la giuria internazionale in apertura di Berlinale è stata per questo motivo una sorpresa, in continuità col sentimento di svolta e cambiamento palpabili, perché si è parlato più di Berlinale e suo destino, che dei vari Trump & Co. o della stessa settima arte, protagonista - si spererebbe - di un festival cinematografico. 

La Berlinale è il politico per eccellenza nel cinema, ma le urgenze in casa hanno avuto priorità a quanto pare. In più Dieter Kosslick ha designato come presidente della giuria internazionale il regista tedesco Tom Tykwer (Lola Corre; Il Profumo; Cloud Atlas;) suo alleato che di politica non ama occuparsi tanto meno parlarne. Non si può dire però, che la stampa presente non ci abbia provato nell’approccio. Così, la prima domanda rivolta a Tykwer è stata di una canadese, che dava scontata la presenza del regista nel pool di cineasti tedeschi che nel dicembre dello scorso anno era firmatario della lettera di critiche a Dieter Kosslick e al suo establishment. Accusati di aver congelato e blindato il festival a cambiamenti e evoluzioni. Occasione anche per una rivolta interna al team della Berlinale delle giovani generazioni, sentitesi frenate e che comunque hanno in parte vinto, se Wieland Speck per un ventennio a capo del Panorama si è dimesso, poco prima che la Berlinale iniziasse. “Non ho mai sottoscritto quella lettera - ha detto sulle difensive Tykwer - e non ho critiche da muovere a Kosslick, che secondo me è stato un grande direttore”. 

Aggiungendo: “Come tanti cineasti tedeschi, spero che la Berlinale superi il periodo di transizione alla nuova guida del Festival in modo pragmatico”. Altro che critiche, quella di Tykwer è stata un’apologia alla formula trovata da Kosslick. Dopo sedici anni alla direzione è indubbio che abbia definito un’era, conformando abilmente questo Festival alle potenzialità di un mercato, tutto nuovo, che solo lui ha saputo identificare perché non mainstream (quello viene dagli Stati Uniti) quanto del tutto europeo, per l’Europa Unita. Con a capo il cinema tedesco, i cui cineasti hanno pure fondato la variante europea dell’Oscar, l’EFA appunto che ha come presidente d’academy Wim Wenders. Una scommessa per un Festival, che con Kosslick è andato ben oltre i suoi fratelli continentali (Cannes e Venezia; tralasciando Roma che è soltanto una festa) perché visto con occhio “tedesco” (si scrive così ma lo si legga “pragmatico”). Un festival che diventasse il più grande d’Europa perché di un pubblico germanofono preponderante nel medesimo continente. Vale sempre la pena ricordare che in tedesco parla la maggiore porzione d’Europa. Con Germania ci sono infatti Austria, Svizzera, Lussemburgo e Sud Tirolo (più una buona fetta di Turchia). 

Le preoccupazioni sono tutte per il futuro delle cifre raggiunte dalla Berlinale. Non si è mai sentito in questi anni qualcuno lamentarsi venendo a questo Festival, che ha luogo sempre in febbraio, periodo dell’anno più inospitale per Berlino. Che però con la Berlinale muove notevoli energie. Cifre “energetiche” piuttosto. Da quando Dieter Kosslick è direttore, la Berlinale è una piattaforma in crescita inesorabile, con oltre mezzo milione di visitatori l’anno, tra giornalisti, pubblico e personale del settore. Il mercato (EFM - European Film Market) è ormai la piattaforma per mille film europei con 530 prime da 110 paesi. Con una previsione di 500.000 biglietti a due settimane dal Festival, superata dopo tre giorni dall’apertura, quando ne erano stati venduti 300.000 e alla fine della kermesse 670.000. Dietro alle cifre di cose e persone c’è logicamente gettito, sia pubblico (7,7 milioni di €), sia privato, per un totale di 27 milioni di €. Per questo, al netto di Tykwer, Kosslick a fretta è voluto quanto dato fuori dai giochi, lo dimostrano le stesse domande tendenziose della stampa ogni qualvolta che ne abbia occasione, perché la sua posizione fa gola a molti. Per i quali un tale successo deve essere ipotesi di altrettante potenzialità che pressano, mentre Kosslick è sempre stato il Direttore paziente, del passo dopo passo. Date le cifre per il suo successore sarà come sedersi su un trono, quello del re (o regina) dei Festival.


Nel bilancio complessivo dei film presentati ricordiamo tra i più interessanti l’opera di Wes Anderson Isle of Dog, che gli è valsa l’Orso per la migliore regia. Il film è a nome e gloria della tecnica in stop motion con l’effetto di un certo mal di mare nei primi minuti, fino a che l’occhio si abitua alle forme che si spalmano nel movimento. Il sindaco della città portuale di Megasaki, tal Kobayashi, detesta i cani che per decreto fa deportare sull’isola vicina, usata come discarica. Anche al figlioccio del sindaco sarà deportato il fedele amico, ma lui va a riprenderselo in una grande avventura. Tralasciando un certo masochismo da Festival tedesco - qui anche i cani fanno eco nelle deportazioni - va posto l’accento sui doppiatori delle bestiole. Che hanno animato l’invernale red carpet di un festival mai troppo amico di Hollywood: Jeff Goldblum, Scarlett Johansson, Bill Murray, Edward Norton. Attori icona di Anderson, che - Johansson a parte - hanno già aperto un’altra Berlinale (2014), con una sua opera più riuscita The Grand Budapest Hotel. Insolito e bizzarro è stato in concorso l’indipendente Damsel dei fratelli David e Nathan Zellner. Che con il loro cinema sembrano l’Ovomaltina se il Nesquik sono i fratelli Coen (questione solo di sfumature). È un western nel periodo di conquista dei territori indiani alla frontiera, molto esilarante e originale nella struttura, perché i due protagonisti - Mia Wasikowska e Robert Pattinson - s’incontrano a metà film, quando il comprimario cede il posto all’altra. Gli stessi registi vi recitano, uno nel ruolo di finto prete e l’altro di perfetto bifolco dal grilletto facile e con un ritardo mentale. Ciò che conta per un film da Berlinale è avere una coscienza vigile. Lo sappiamo e lo abbiamo ripetuto, questo festival non serve al cinema che evade, e tra risate a cuor leggero anche in Damsel alcune battute ce ne danno riprova. “Siamo già in territorio indiano?” chiede nel panico il finto prete (David Zellner) al suo capo (Robert Pattinson), incrociando un carretto con uno senza scalpo tra morti straziati da frecce. Risposta: “Tecnicamente tutto è sempre stato territorio indiano”.


Nel fuori concorso ci soffermiamo su due film per la Storia e per il presente allo stesso tempo: il documentario Zentralflughafen THF del brasiliano Karim Aïnouz e Black 47 del regista irlandese Lance Daly con Hugo Weaving (Priscilla la regina del deserto). Presentato nel Panorama Dokumente, il primo parte dal ruolo dell’aeroporto Tempelhof a Berlino, come fiore all’occhiello di architettura nazista, oggi invece trasformato nel più grande centro per rifugiati siriani (e non) dell’intera Europa, come fiore all’occhiello della politica di accoglienza di Angela Merkel. Un paradosso promettente. Dall’apoteosi Wagneriana che pare abbia ispirato in voli di onnipotenza architettonica prima Hitler e poi l’architetto che lo realizzò Ernst Sagebiel (influenzato dal dittatore stesso), alla storia di migliaia di persone che vivono in attesa di permesso di soggiorno tra sconforto e speranza il processo di assimilazione politica e sociale in Germania. In questi anni la Berlinale si è occupata tanto del destino dei rifugiati, dedicando al tema due edizioni consecutive (2016 e 2017). Per la sessantottesima edizione sono stati assegnati invece film con soggetto non tanto l’arrivo quanto l’inserimento degli asilanti. Fase altrettanto difficile e meno scontata rispetto all’accoglienza iniziale, perché non tutti potranno restare e chi riceverà il permesso di soggiorno dovrà confrontarsi duramente con gli usi e costumi, della cultura trovata rispetto al paese di origine. Nel documentario, a un certo punto un vecchio siriano, giunto nel reparto ospedaliero - in un Hangar del gigantesco aeroporto - dice al dottore d’anamnesi: “Io qui mi sento in paradiso. I tedeschi non sono in grado di mentire e quel che promettono lo mantengono.”

Foto: "Black 47" di Lance Daly

L’altro titolo tra passato e presente è stato Black 47, film storico vestito da action movie e tutto irlandese, soprattutto nella tempra litigiosa. Il frangente è quello della grande carestia irlandese nel 1847, finita nel 1852 con la decimazione della popolazione, ridotta del 30% tra morti e emigrati in Canada e Stati Uniti. Le cause della carestia furono molteplici: la politica imperiale britannica, il brusco incremento demografico (8,2 milioni di abitanti nel 1841) e soprattutto la comparsa della peronospora, un fungo che distrusse i raccolti con un picco nel 1847 appunto. L’irlandese Martin Feeney (James Frecheville), disertore che ha combattuto in Afghanistan per la corona d’Inghilterra, ritorna a casa nel Connemara e trova l’intero villaggio in pena. La madre è morta, il fratello impiccato e i cugini affamati e malati, per la carestia e le vessazioni dei mezzadri. Che in nome di sua maestà, buttano tutti fuori dalle case se non possono pagare affitti e oboli per mancato raccolto. Mezzadri che usano gli stessi irlandesi per il lavoro sporco, creando recrudescenze fratricide su omissioni di coscienza nazionale. Il soldato Feeney si fa vendicatore per la famiglia e per il suo popolo, ma è braccato da un suo connazionale e commilitone in Afghanistan, ancora a servizio degli inglesi (Hugo Weaving). Il film riaccende la miccia nei rapporti mai rosei tra Inghilterra e Irlanda, ma in un timing perfetto nell’orizzonte presente della Brexit. 

Per questo motivo Black 47 è stato nella rassegna principale del Festival di Kosslick e il suo regista in conferenza stampa con le spalle coperte era ben schierato: “Gli irlandesi sono rimasti incastrati nelle scelte nazionali dell’impero britannico, speriamo che non si continui nel presente democratico”. Si sa, a Berlino l’uscita britannica dalla Comunità Europea non è stata gradita; e quando da Berlino si usa la storia per non mandarle a dire, non sono gli effetti a interessare, quanto gli scenari sottintesi. Stiamo sereni però, c’è ancora pace nella città di tutte le guerre.




Commenti

Post popolari in questo blog

"L'Amico ritrovato... Ma anche il Film" (19.06.2011)

Fred Uhlman (1901 - 1985) scrisse a proposito del suo capolavoro letterario “Der Wiedergefundene Freund” (“L’Amico Ritrovato”): “si può vivere di un solo libro” e se ciò è vero, la stessa cosa si può sostenere per l’omonimo film diretto da Jerry Schatzberg (1989), che di libri sempre di Uhlman ne riassume altri due - “Un’anima non vile" e “Niente resurrezioni per favore” raccolti ne “La trilogia del ritorno” (Editrice Guanda pagg. 224, 14 euro - 2006) - ma che di film altrettanto belli non ne ha più girati. Il DVD è introvabile, l’ho ordinato mesi or sono presso due negozi italiani, ma non sono riusciti a reperirlo. Anche qui in Germania, stranamente considerato che il film è stato prodotto proprio in questo paese e con capitali berlinesi. Poi ho ritrovato in un mio vecchio scatolone il vhs del film, registrato dalla televisione nel 1991. Un film che ho amato come il libro, perché questa storia bussò al mio cuore al momento giusto, quasi per una coincidenza, quand

64. Berlinale Nymfomaniac Vol. 1 … Ninfomane di un generoso

Foto: Kookie Ryan, Charlotte Gainsbourg, Papou  Il Sabatini Coletti, dizionario della lingua italiana, dà una definizione molto interessante alla voce annichilimento : “abbassarsi; umiliarsi; ridurre al niente.” Questo è più o meno quel che succede nell’ultima prostrazione di Lars Von Trier,  Nymphomaniac Vol. 1  (Long Version) nel fuori concorso della sessantaquattresima Berlinale. Perché i volumi saranno un paio, nella trilogia della depressione, esattamente come lo stesso regista aveva annunciato di fare. Il cast di quest’annichilente vicenda è di tutto riguardo si passa da (nel vol. 1) Charlotte Gainsbourg, nel ruolo di Joe lupus in fabula, Shia LeBouf, che negli anni si fa un paio di volte la bella Joe (guardate che il film dura 150 minuti), Christian Slater,  qui ancora solo il padre della bella Joe (si dice che nel secondo volume la sua figura presenti lati oscuri… mhmhmhm… immaginiamoci dunque quali, con una figlia tanto irrefrenabile!) , Udo Kier, che si fa tan

Non solo gay ma Maurice

Nel 1987 Maurice di James Ivory vinse il Leone d'Argento alla Mostra del Cinema di Venezia, battuto da Au Revoir Les Enfants di Louis Malle. Tratto da una novella del 1917 di E.M. Forster (1879 - 1970), pubblicata un anno dopo la morte dell'autore (1971), il film è stato identificato come storia gay nell'Inghilterra dei primi del Novecento, quando l'omosessualità era punita con la prigione e l'interdizione perenne dalla vita pubblica della nazione. C'è tuttavia ben altro, che andrebbe rispolverato e sta in un importante particolare identificativo della storia, adombrato dalla trama ovvero il fenomeno "Maurice" con tutta la sua carica rivoluzionaria. Il titolo è proprio emblematico perché come Ulisse di James Joyce racchiude in sé tutto ciò che nella vicenda deve interessare: non la società con la sua ipocrisia, non gli altri personaggi positivi o negativi che siano, non i caratteri più o meno profondi, e nemmeno le loro pulsioni, ma lui  Maurice