Se l’Italia fosse stata nel concorso di questa Berlinale, dopo il film di Rosi un anno fa, avrebbe vinto per il secondo anno consecutivo con “Call me by your Name”, di Luca Guadagnino. Il film però è nel “Panorama” e concorre per la trama al premio gay “Teddy Award”, e per gradimento (tutto esaurito da tre giorni) al “Publikumspreis”.
Si sa, è l’audience a fare il vero campione, e a porre Guadagnino alla sua attenzione fu “Io sono amore” con Tilda Swinton e Alba Rohrwacher (2009). Trame di famiglia a confronto, in “Call me by your Name” è cresciuta la vena estetica a sfavore – che gioia – della vena melodrammatica, per una più accentuata poesia. Perché qui è l’arte, nel suo senso universale e più vero, il bandolo.
Nel corso di un’estate calda e afosa in qualche punto del Nord Italia, dice una didascalia sullo schermo (Crema lombarda per chi la riconosce) un minorenne (Timoothée Chalamet) e un giovane accademico americano(Armie Hammer), ospite di famiglia, s’innamorano. Si badi, non dell’amore in un sentimento, ma quello ossessivo, amaro. Che nasce dalle fantasie di un diciassettenne imberbe e di un esteta archeologo, nella totale dipendenza del suo efebo, da statua di carne e ossa.
Adriano e Antinoo, amanti, stavano alla natura umana, come le loro statue, in arte, stanno al favoloso di un amore carnale, estetizzante, senza tempo. Sono simbolo di pura bellezza e sintomo di dolore e sconfitta, perché di un capriccio da parte dell’uno e nella perdita di sé dell’altro.
Per questo le loro sculture hanno portato generazioni di romantici a languire, e da artisti a produrre in nome di quel vago sensuale. Perché quel che si è creduto di loro è nel mito dell’arte, che ci ha dato due perfette statue, e ce la fa vedere come amanti.
Luca Guadagnino propone questa stessa dimensione estatica di amanti sfasati, negli anni di una sinistra appassionata, con Bettino Craxi e il Pentapartito. Nulla nel cinema è per caso, anche nel film è detto a un certo punto “il cinema è lo specchio del reale”. E se nel film la passione classica è misura metrica, lo è anche politica, e ci ancòra a un altro passato più recente quando la prima crisi d’identità, a sinistra, era sintomo della caduta di certezze del comunismo: da passione a passione; da mito a mito; da caduta a caduta.
I due eroi di Guadagnino sono l’impossibilità, perché stanno alla sfera di una passione incongrua senza futuro, come la passione politica di allora (nel film tra accesi battibecchi ideologici di radical e anticraxiani comunisti) è morta nel vuoto ideologico a sinistra oggi.
Tutto nel film è incastonato nel dolce contesto di quieti illuminati artistoidi e radical chic (il ragazzo compone, suo padre fa il ricercatore archeologico, la madre l’esteta, e vivono in una villa rinascimentale) tra indolenze estive, mentre intorno è palpabile lo sgretolarsi in tutte le direzioni, tranne di quella famiglia che resta mito, appunto. Il tema dell’omosessualità, nelle mani di un grande regista italiano ci spinge a considerare l’Italia partendo da quel contesto.
Se le coppie di fatto non sono più un tabù dallo scorso Governo Renzi, lo è ancora la serenità di coppia per l’adozione e la tutela delle famiglie gay e dei loro figli. Il trampolino della Berlinale serve a questo, portare anche la politica al cinema per la scommessa. Se dunque al cinema il tabù di un amore omosessuale tra un minorenne e un adulto può essere plausibile nella dialettica d’arte, facendo di uno scandalo un bel sogno per tutti, per molto meno e per vero amore, la politica potrebbe ben altro.
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