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Berlinale 2020 - da RS - Ricerche Storiche (versione autorizzata per il Blog)


Non è ancora tempo di fare bilanci, perché la Settantesima Berlinale è stata diretta per la prima volta dall’italiano Carlo Chatrian, che è stato direttore del Festival del cinema di Locarno. L’innovazione richiede tempo e chiarezza dei ruoli: a lui la scelta delle opere come responsabile artistico del Festival. Quanto alla condirettrice, Mariette Rissenbeek, è positivo e di buon auspicio per questioni di genere una presenza femminile al vertice, ma il suo è un ruolo amministrativo

Per ora l’immagine di questa edizione del Festival di Berlino, ne ha un po’ risentito, perché senza Dieter Kosslick la stessa idea di Berlinale deve trovare una sua nuova definizione dopo un format collaudato in anni di esperienza e forgiato dalla sua stessa personalità: generosa, istrionica e ironica. Chatrian era visibilmente impacciato in una cornice ancora da definirsi. Tuttavia si farà presto amare. Ne ha i requisiti, oltre a una grande umiltà, che genera stima nei suoi confronti. Gli consigliamo tuttavia di ostentare più grinta, proprio perché gli ingranaggi del Festival di Berlino sono ancora oliati secondo gli schemi di Kosslick Chatrian inserendosi con maggiore grinta (senza nulla togliere alla Rissenbeck) potrebbe acquisire in breve il ruolo del “Direttore sovrano”.

FOTO: Elio Germano in Volevo Nascondermi


Il lettore di questo articolo saprà già fatti e antefatti, avrà già gioito dei premi italiani conferiti all’ultima Berlinale, perché questo numero di RS è pubblicato quasi due mesi dopo la fine del Festival. Valga dunque di questa lettura più la riflessione sui film indipendentemente dalla loro origine nazionale, seguendo il consiglio del Direttore Chatrian: “Un film adatto alla Berlinale è quello che resta dentro lo spettatore, che torna a casa con lui dopo la proiezione, che lo accompagna il giorno dopo anche sul posto di lavoro”.

In questa logica non poteva che vincere l’Orso d’Oro il film del regista iraniano Mohammad Rasoulof Sheytan Vojud Nadarad (“There is no Evil”), sulla pena di morte in Iran. Il premio è stato ritirato dalla figlia stessa del regista, Baran Rasoulof, nonché attrice in uno dei quattro episodi che compongono l’opera. Mohammad è agli arresti domiciliari, per questo non era presente alla cerimonia, ma nemmeno alla presentazione del film, com’è successo in passato con l’altro grande regista iraniano Jafar Panahi che di edizioni del Festival di Berlino ne ha vinte ben due. Per protesta contro le autorità iraniane la Berlinale ha deciso di conservare il posto a Rasoulof, con nome e cognome in evidenza, ovunque fosse previsto nelle conferenze stampa.

Una fila di gambe che si agitano e tremano nel vuoto, scosse da violente convulsioni per poi cessare ogni movimento e rilasciare urina. È la scena posta tra il primo e il secondo episodio di Sheytan Vojud Nadarad, che raffigura l’esecuzione di un gruppo di detenuti. Quattro episodi, variazioni sul tema della responsabilità individuale all’interno di un sistema in cui lo Stato è pervasivo e liberticida, dove la pena di morte è una costante. La filmografia del regista è tutta all’insegna della militanza politica, di un braccio di ferro contro il regime che al regista è costato molte condanne. Il film alla Berlinale è stato attaccato dall’agenzia di stampa iraniana invitata, che accusa Rasoulof di travisare ad arte le disposizioni del paese in merito agli obblighi nello svolgere il ruolo di boia. Perché, appunto, tutti e quattro gli atti in Sheytan Vojud Nadarad inscenano vite e destini di boia, tra serena noncuranza e drammatici sensi di colpa. Da un punto di vista artistico il film, come non si sa, deve aver raggirato ogni divieto di operare imposto al regista, perché la fattura dell’opera ha una grana di rara perizie e bellezza, ben lungi dai filmetti fatti con telecamera nascosta. Il respiro è ampio, specie per la fotografia. A commuovere lo spettatore italiano sarà anche la colonna sonora, con un Bella Ciao cantato prima a squarciagola e poi soffuso in un notturno struggente su Teheran.



Fra le altre opere premiate non va dimenticato il film francese Irradiés diretto dal regista cambogiano Rithy Panh, premiato con un Orso d’Argento come miglior documentario. E’ un’opera che, riprende la calma narrativa di Alain Resnais per il suo Hiroshima Mon Amour (1959) per poi procedere sulle vie nude e crude del documentario. Panh è sopravvissuto alle atrocità dei Khmer Rossi, che hanno ucciso tutta la sua famiglia. È stato lui stesso a dichiarare: “A quali orrori i miei ricordi sono fermi non ho parole per esprimerli”. Con il suo Irradiés usa immagini che hanno lo scopo di approfondire randomicamente l’esperienza dei sopravvissuti. Sopravvissuti all’Olocausto, sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki,  sopravvissuti all’occupazione giapponese in Cina iniziata nel 1931, con la Manciuria, e proseguita a partire dal 1937 fino al 1945. Rithy Panh non si ferma alla propria esperienza, ma la confronta con quella degli altri sopravvissuti. Raccoglie immagini dal campo di Auschwitz-Birkenau, delle radiazioni delle vittime giapponesi dopo le due bombe atomiche, dei soldati nelle trincee di Verdun e dei campi di sterminio in Cambogia, come se fossero tutti confrontabili. Un trittico che lo spinge anche formalmente a suddividere lo schermo di proiezione in tre sezioni: atrocità in un trittico. Non c’è così un’immagine individuale, ma triplicata; il primo piano sui morti è una costante. Il regista vuole che gli spettatori guardino e procedano attraverso il dolore e la paura che nasce dovendo continuare a guardare tutte scene che creano vergogna e rifiuto.

Ma la sequenza è talmente serrata che non si può procedere a occhi chiusi: l’unica soluzione che resta è lasciare la sala. Fuggire. Ancora e ancora ci sono montaggi paralleli, come se i diversi massacri si relazionassero:  bambini che hanno i capelli che cadono dopo l’attacco dell’atomica e le montagne di capelli tagliati del museo di Auschwitz. Per la velocità di progressione diventa tutto astratto. L’astrazione è proprio l’elemento che sta a cuore al regista: “L’astrazione è mortale” ha dichiarato, perché guardare non è osservare. Quest’ultimo elemento è la discriminante tra la nostra disattenzione (abitudine alle sofferenze accadute nella storia, che ci hanno addirittura reso insensibili) e l’aprire gli occhi per capire, per esserci. Quest’astratta arbitrarietà narrativa è tenuta insieme da due voci fuoricampo (una maschile e una femminile) sono i narratori ovvero i francesi André Wilms e Rebecca Marder.

Gli stessi attori è come se fossero sopravvissuti al bombardamento atomico di cui parlano, sembra che sappiano quale sia l’esposizione al dolore. Entrambi appaiono come entità astratte, truccati di bianco con orbite nere intorno agli occhi nella tradizione del teatro delle pantomime Kabuki. Si contorcono nei canyon di strada distrutti e nei paesaggi spazzati dalla guerra. Il regista ha definito questa combinazione tra immagini di archivio combinate con scene teatrali e dissolvenze di paesaggi di guerra una “polifonia”. I sopravvissuti alla Shoah e alle atomiche, a tutti i massacri della storia hanno perso la grazia dell’oblio: il trauma si trasmette di generazione in generazione. “È possibile che tutta l’umanità sia colpita?”, si chiede la voce della Marder. Irradiés vuole essere un grido di speranza, ma non una banale speranza, quanto quella che nasce dal riverbero stesso di una fonte diretta. Tant’è che Rithy Panh ha scritto la sceneggiatura attraverso discussioni con la cineasta, attrice e sopravvissuta francese a Auschwitz Marceline Loridan-Ivens, scomparsa all’età di novanta anni nel 2019. Lei l’ha incoraggiato a girare il film utilizzando anche estratti dal film di Edgar Morin e Jean Rouch, Cronaca di un’estate (1961) da lei interpretato. La Loridan-Ivens chiedeva nel film a ogni passante: “Lei è felice?”. La felicità in sé è il quesito dell’umanità, perché è il traguardo anelato, ma non ci può essere felicità se l’umanità è tra l’incudine e il martello delle guerre.

Veniamo alla nostra cinematografia, che con un italiano a dirigere il Festival si è presentata con una serie di opere di livello in tutte le sezioni. I due Orsi d’Argento, quello per la sceneggiatura e per il migliore attore sono andati rispettivamente ai fratelli D’Innocenzo per Favolacce e a Elio Germano nel ruolo del grande Ligabue in Volevo nascondermi di Giorgio Diritti.

Favolacce in concorso riporta i fratelli D’Innocenzo a parlare di ragazzini. Lo hanno fatto con il loro film debutto Boys Cry (2018), che aveva suscitato tanto scalpore in Italia. Qui alla Berlinale però sono arrivati con un universo più ordinato, che però guarda tanto ai dark movies di David Lynch e Ulrich Seidl, per spingerci in spazi e osservazioni più banali, meno contorte. Ed è il merito dei D’Innocenzo. Tutte storie malvagie ma senza alcuna carica di cinismo, che nel cinema purtroppo non solo va di moda, ma vince – ancora purtroppo – anche i festival, se a ben vedere Parasite ha vinto a Cannes (2019).

Al centro di Favolacce c’è una famiglia: Placido, il padre Bruno (Elio Germano, nel suo secondo film in concorso a Berlino dopo Volevo nascondermi), mamma Dalila (Barbara Chichiarelli) e Alessia (Giulietta Rebeggiani). Una famiglia perfetta, vista da fuori: i bambini sono bravi a scuola, i genitori sono felici, ma già una luce volutamente sbiadita e colori pallidi ci fanno intuire una diversa realtà. Si tratta di un mondo apparentemente normale dove silente cova il sadismo sottile dei padri, la passività delle madri e l'indifferenza colpevole degli adulti. Ma soprattutto è la disperazione dei figli, diligenti e crudeli, incapaci di farsi ascoltare, che esplode in una rabbia sopita e scorre veloce verso la sconfitta di tutti.

Tristezza e tristezza nelle anonime case di uno scorcio romano, dove le donne incinte fumano e i bambini mettono gli alcolici sul tavolo. Un grandioso dramma italiano quello descritto dai D’Innocenzo, osservato con occhi rassegnati. Un mondo che regge a malapena, fino alla rottura finale. Il film mostra la desolazione della classe medio-bassa italiana. Genitori frustrati perché consapevoli di aver mancato i propri sogni che scaricano sui figli senza cercarne un contatto o una reale conoscenza. È un’opera radicale Favolacce perché  dai sobborghi romani diventa possibile ovunque. I bambini sono consapevoli di una totale negazione del futuro che li attende.

Ritirando l’ambito Orso d’Argento come migliore attore della Settantesima Berlinale, per la sua interpretazione in Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, Elio Germano, visibilmente emozionato ha detto: “Lo voglio dedicare, questo premio, a tutti gli storti, tutti gli sbagliati, tutti gli emarginati, tutti i fuori casta e a Antonio Ligabue; alla grande lezione che ci ha dato, che è ancora con noi, che quello che facciamo in vita rimane”. E ci sta tutto, non solo il film ma le parole esatte di questa dedica, cifre della grandezza di un uomo nato per lasciare il segno.

Trattato come uno “storto”, Ligabue già da bambino viene insultato dal maestro con le stesse parole della dedica di Germano. “Sei un errore!” Antonio ha solo sette anni quando sente queste parole. Sin da piccolo si sente un estraneo, mostrando i primi segni dei problemi comportamentali che influenzeranno la sua vita. Una vita che il regista Diritti ripercorre con meticolosa precisione, al limite della pedanteria.

Nato a Zurigo (1899), Antonio viene espulso dalla Svizzera in Italia a vent’anni per una denuncia della madre adottiva. Arrivato a Gualtieri, ignorato da grandi e piccoli, trova solo nel pittore Marino Mazzacurati  il suo angelo salvator: gli dà riparo e soprattutto penna, colori e pennelli. Antonio dimostra un talento incredibile, disegna forme, scolpisce, e crea dipinti caratterizzati da colori vivaci e raffigurazioni naturistiche di animali. Ciò che ancora oggi rappresenta, ben oltre la sua morte, la cifra dell’Art Brut (“Arte spontanea”), un concetto usato per la prima volta dal pittore francese Jean Dubuffet nel 1945. Con ciò intendeva tutte quelle opere create da artisti non professionisti o chiusi negli ospedali psichiatrici, operanti al di fuori di norme estetiche convenzionali, opere grezze che tuttavia appartengono di diritto alle correnti espressioniste.

Diritti ci racconta del destino di una persona che trascende la sua stessa diversità, che non può fuggire dal suo destino, che non ha vie di scampo. Mette in scena un percorso di sofferenza in modo freddo e implacabile: non si fugge dalla vita che ci è toccata. Come accadde a Camille Claudel, innamorata dello scultore Rodin, forse più brava di lui e da lui copiata, che finì i suoi giorni internata in un manicomio alle porte di Parigi. Il film, punto per punto, segue le vicissitudini dell’artista, la sofferenza va di pari passo con i suoi successi, piccoli momenti di felicità accanto ai molti di dolore. Più dolore lo assaliva, più grande era l’opera prodotta. Perché come tanti artisti Ligabue è stato un uomo quasi indifeso dal procedere della vita, per reagire solo l’elaborazione artistica, cruda e disperata, il gesto violento e autolesionistico.

Elio Germano usa poche parole nel ruolo, immergendosi in un uomo che diventa vittima della sua diversità, ma lo rende talmente vicino allo spettatore da far emergere in quet’ultimo un senso d’affetto. Ha enfatizzato la sofferenza di Ligabue perché il pubblico ne comprendesse la personalità abbracciandola in cuor proprio, come ha fatto lui nel recitarne il ruolo. E poco importa se ci si siede in sala senza avere la minima infarinatura d’arte contemporanea, il film è realizzato in un modo molto intelligente, e già molto prima dell’arrivo dei titoli di coda il pubblico può capire tutto della sua arte, ma soprattutto è diventato un tutt’uno con la vita di Ligabue.

Volevo nascondermi è un film ambizioso nella messa in scena. Le immagini pittoresche e i paesaggi riproposti sono tutte nel solco di una prospettiva filmica che vuole rispecchiare quella soggettiva di Ligabue. Cerca di trasmettere il sentimento della sua visione del mondo, graffiata, scarnificata, come le superfici delle sue opere. Un solo rilievo: la scena in cui Ligabue distrugge con rabbia le sue opere di fronte all’incomprensione della gente  è una delle tante scene di cliché nel genere “biografia d’artista”. Unica concessione allo stereotipo del “genio-incompreso”, in un’opera su un artista che pure conosceva l’orgoglio della propria arte.

Fuori dal coro dei film vincitori, vogliamo ricordare un altro film francese sul solco tracciato da Chatrian del vero film da Berlinale in grado di accompagnare il pubblico oltre i limiti della sala. Si tratta di Police della regista francese Anne Fontaine. È il film che ha chiuso la Settantesima Berlinale e dunque di necessario rilievo per i programmatori, come il film che apre il festival. Nel film, tre ufficiali di polizia hanno il compito di scortare, in un imprevisto turno notturno, un richiedente asilo all’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi, dove verrà costretto a salire su un aereo e rispedito in Tagikistan.



Secondo le statistiche ciò accade molto di frequente in Francia, dove quasi 24.000 persone sono state espulse solo nel 2019. Eppure, nel dramma poliziesco ben diretto dalla regista, questo atto scatena un problema di coscienza per i tre protagonisti spingendoli a superare i limiti del loro ruolo scegliendo fra il rispetto della legge e quello dell'umanità. Il trio dei poliziotti è composto da Virginie Efira, Omar Sy (Quasi Amici) e Grégory Gadebois, mentre il rifugiato  è interpretato dall’eccellente Payman Maadi (A Separation). Il film è avvincente ma anche esasperante nel porre sotto gli occhi dello spettatore il dramma vissuto da migliaia di persone perseguitate nei loro paesi, per questo in cerca di una nuova vita in Europa, per poi essere rispedite a casa verso una probabile morte. Lo scontro fra la protagonista e i colleghi è il nocciolo del film, il percorso di convincimento che l’agente riesce a compiere verso la scelta finale.

È raro in Francia vedere storie di poliziotti raccontate da un punto di vista in prevalenza femminile e in questo senso Police troverà certamente grande favore di pubblico in Francia ma anche all’estero. Per la stessa Anne Fontaine è un’opera di assoluta novità, la camaleontica regista nell’ultimo decennio ha difatti diretto opere sulla moda (Coco Before Chanel), una commedia romantica con Isabelle Huppert (My Worst Nightmare) e un duro dramma ambientato al tempo dell’ultima guerra sulle suore incinte (Gli Innocenti). Ogni volta applicando il suo stile raffinato e la sua mano abile con attori di tutto riguardo.

Qui in una sceneggiatura adattata a un romanzo francese di successo scritto da Hugo Boris (2016) descrive le forze dell’ordine come un universo complesso, cupo ma tenero, concentrandosi sulle relazioni rischiose che i protagonisti del film hanno tra loro e sul muto (non conoscendo una parola di francese) Tohirov (Payman Maadi), terrorizzato all’idea di rimettere piede in patria.

Police è raccontato da tre punti di vista distinti - secondo uno stile classico di narrazione – seguendo i diversi destini dei tre protagonisti, impegnati nello stesso distretto di Parigi, ma con vite drasticamente differenti. La protagonista è una delle poche donne della sua unità con atteggiamenti maschili, che preferisce il lavoro straordinario per star lontana da marito e figlioletto,  Sy interpreta un poliziotto apparentemente scherzoso ma con un difficile passato da immigrato, mentre il terzo (Grégory Gadebois ) dietro alla facciata dell’efficienza nasconde un passato da alcolista, forse non del tutto superato.

La Fontaine gioca con gli stereotipi per approfondire le dinamiche dei singoli personaggi.

Evitando la tipica durezza di tanti polizieschi ambientati a Parigi, la Fontaine e il suo direttore alla fotografia Yves Angelo optano per una tavolozza di colori caldi che sottolinea l’intimità forzata che viene a crearsi tra i quattro personaggi, a partire dal trasferimento in furgone dell'espulso verso l’aeroporto.. Una colonna sonora di musica classica per archi aggiunge un ulteriore tono malinconico e affettuoso al film, forse unico poliziesco nella storia del cinema in cui non viene sparato un singolo colpo di pistola.

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